Giovanni Paolo II ha instaurato un nuovo stile nella celebrazione della santità: ritenendo che Dio sia molto generoso nel distribuire i suoi doni e che i cristiani in grado di valorizzarli al massimo siano tanti, più di quelli che la Chiesa ufficiale non sia normalmente disposta a riconoscere, ha concesso l’onore degli altari a un numero crescente di persone. Battendo tutti i suoi predecessori messi assieme.
La Chiesa ha così ottenuto un effetto di grande impatto spirituale e di immagine: è in minoranza in tutto il mondo, ma la sua visibilità viene amplificata da un numero crescente di testimoni privilegiati. La cui caratteristica è quella di essere persone della porta accanto, amici conosciuti, mamme di famiglia generose ed eroiche, ragazzi affascinati dalla fede, protagonisti della carità più che dell’effetto speciale a contenuto ascetico o mistico.
Una santità democratica, multietnica, multiculturale, che esce dai conventi e dai chiostri, per entrare nelle famiglie, nelle scuole, nelle fabbriche, negli ospedali. Lˆ dove occorre eroismo, molto spesso, per vivere da uomini prima che per vivere da cristiani. Sono santi che non rientrano nelle categorie tradizionali. Santi quasi senza aureola. Di sicuro in maniche di camicia.
Viviamo immersi tra i santi. Possiamo quindi rischiare di raccontarli con le parole di tutti i giorni. Secondo noi, non è affatto un caso che Gaetano Errico venga beatificato in questo momento storico. Quei ritardi nell’iter della sua causa, a giochi conclusi, si possono considerare provvidenziali.
Senza rischiare l’arroganza, a noi pare che se avessero fatto santo Gaetano Errico alla fine dell’ottocento o agli inizi del novecento l’avremmo perso di vista. Per i modesti strumenti critici (non canonici né religiosi ma sostanzialmente laici) di cui disponiamo, a noi pare che don Gaetano sia un prete e un santo di oggi, prestato al nostro passato per uno di quei giochi di anticipazione che si verificano solo nella storia dell’arte, della follia e della santità, appunto.
Il Nostro è un santo buono per il terzo millennio, un progettista di futuro.
Il nuovo mondo
L’inflazione di post con cui tentiamo di definire la mutazione radicale dell’uomo e del mondo che si è verificata negli ultimi anni la dice lunga sulla debolezza della nostra capacità di analisi. Al di là delle parole, dobbiamo prendere atto che la modernità è finita: la funzione e il senso delle sue principali elaborazioni – la politica, l’economia, l’etica, l’estetica, la religione, la scienza, la tecnica – sono cambiate.
La politica ha perso per strada le ideologie e i partiti. L’economia non governa il mercato ma viene generata dal mercato. L’etica si è moltiplicata, fino a diventare norma di vita individuale, per cui ci troviamo a gestire circa sei miliardi di etiche. L’estetica si è svuotata della forma ed è diventata gesto fine a se stesso. La religione si è secolarizzata. La scienza è uscita dalle università per entrare nelle fabbriche, non più al servizio della conoscenza ma del profitto. La tecnica ha smesso di costruire macchine per risolvere problemi e migliorare le nostre condizioni di vita e costruisce macchine in cerca di problemi, che si giustificano da sole oltre che autoriprodursi.
Questi cambiamenti ci impongono di imparare a vivere da capo, quale che sia la nostra analisi.
E la sfida sta in questo, che devi saper armonizzare la tua condizione individuale con quella dell’intera società, integrare la visione del luogo in cui vivi con la visione globale del mondo in cui sei inserito, parlare una lingua che capiscano tutti o imparare tutte le lingue di quelli che incontri, gestire bisogni che non derivano dalla mancanza di qualche cosa ma dagli eccessi di informazioni, conoscenze, strumenti, linguaggi, prodotti.
La più recente soluzione pare sia quella di controllare la complessità imbragando il sistema in una rete (Internet) in modo tale da renderlo percorribile. Il viaggio, sia pure virtuale, è diventato il nuovo modo di lavorare, di apprendere, di commercializzare, di divertirsi.
Don Gaetano ha manifestato una straordinaria capacità di
analizzare il mondo da un punto di osservazione così decentrato come Secondigliano. Il sistema stava cambiando radicalmente. La truculenza, la violenza, la velocità, l’ampiezza dei cambiamenti, sia pure apparenti, erano tali da disorientare tutti: i patrioti, i reazionari, i conservatori e gli innovatori.
Don Gaetano coglie subito l’ambiguità di tutto questo sconvolgimento. Non ne riscontra gli effetti là dove conta: nella vita delle persone, nei rapporti sociali, nell’educazione e nella religione. E dunque decide che si tratta di un falso cambiamento, di una mistificazione del potere. Non si produce niente di nuovo. E allora si mette lui, in prima persona, a rispondere all’esigenza di novità che proviene da tutti. È un cristiano, è un prete, è un educatore: tutti titoli che lo abilitano alla produzione di novità.
La sua convinzione di fondo è chiara: non si dà cambiamento reale se non si dà una inversione a livello delle coscienze. A livello delle persone.
Ma come si realizza questo processo di orientamento, questa conversione delle persone? Attraverso la scuola, attraverso la formazione, attraverso le nuove professioni e la diffusione continua della conoscenza. Attraverso una nuova coscienza di sè e del mondo.
Don Gaetano ha fatto scuola per vent’anni e ha impiegato
tutta la sua vita sacerdotale per aiutare le persone a rinnovarsi, a operare quella conversione a U che doveva avere, secondo lui, come meta finale Dio ma che passava per le nuove strade della storia. Ha corretto la deviazione, la confusione, l’incertezza delle persone, aiutandole a ricostruirsi una coscienza: a viversi cioè come compito, come progetto e non come dato biologico, economico o culturale.
L’attualità di don Gaetano sta in questo. Dopo anni di ricerca e di ricostruzione della nostra immagine, causati dai nostri problemi di identità, dobbiamo ammettere di aver affrontato un falso problema. Noi non abbiamo problemi di identità o di immagine ma di coscienza. Ci serve una coscienza in grado di sostituire la funzione delle protesi scomparse della modernità (scienza, tecnica, conoscenza, potere, politica, economia) e di farci stare in piedi da soli.
Questo è ciò che don Gaetano ha promosso in una intera vita da prete: ha ricostruito, progettato, illuminato, diretto coscienze. E lo ha fatto nella maniera più efficace: anticipando il bisogno delle persone, andandole a cercare prima che si disperdessero.
Don Gaetano non è un prete che ti aspetta. È un prete geniale che ti cerca, che ti anticipa. E questo ti fornisce sicurezza e ti lascia libero. Ti restituisce a te stesso.
Nella sua strategia, la confessione ti consente di conoscere i tuoi limiti; la pratica dell’amore ti permette di superarli. Quella coscienza solo razionale, promossa dall’Illuminismo (modello culturale dei tempi di don Gaetano), è sterile. Non possiamo rifiutare di avere un cuore. Il cuore è il modo di essere della coscienza. Sta dentro di noi, come quella.
Invece che finire sul letto dell’analista possiamo più utilmente stare in ginocchio davanti a un confessore. Non abbiamo bisogno di curarci dai complessi, ma di costruirci. Con materiali resistenti allo scopo.
Hanno definito don Gaetano un uomo di pietra e di marmo.
Il ritorno al cuore
Oltre che costruirsi personalmente come uomo e come sacerdote, il beato Gaetano Errico ha dato un contributo importante al progetto di vita di molte persone. Il suo ministero sacerdotale come la sua attività di fondatore sono dominati dalla tensione salvifica espressa da Gesù: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! È (Lc 12, 49). Una affermazione che lo ha segnato fin da giovane e che esclude dal suo apostolato ogni concessione intimistica o individualistica. Una concezione eroica e avventurosa della sua missione di sacerdote.
Essa deriva da una visione del mondo e della storia di forte impatto drammatico: storia e mondo sono il terreno di scontro del bene e del il male, del peccato e della Grazia. Si tratta di un conflitto che va oltre la nostra possibilità di comprensione e di controllo, per cui se non fosse venuto Gesù a risolverlo, schierandosi dalla nostra parte e assicurandoci che il nostro Dio non è affatto il Dio terribile, inaccessibile, incomprensibile e non tanto da amarsi come Padre ma da temersi come Giudice noi saremmo irrimediabilmente perduti. Condannati per quella nostra originaria propensione al peccato, che ci consegnerebbe irrimediabilmente al principe del male.
Il “fuoco” di Gesù è un simbolo forte e quanto mai pertinente a uno scenario del genere. Assieme al simbolo della “spada” esso rappresenta la necessità di selezionare i buoni dai cattivi, di provare la resistenza dei discepoli, di distinguere nettamente il buio dalle tenebre, ma anche la temperatura calda da quella tiepida e rivoltante del compromesso di comodo. Non solo. Il fuoco sta a indicare l’urgenza con cui bisogna dire a tutti (evangelizzare) come stanno le cose, in modo tale che nessuno vada perduto. È il fuoco interiore che brucia il cuore di Gesù e di ogni apostolo votato alla salvezza delle anime.
È il fuoco, infine, sta a indicare che lo scontro titanico tra il bene e il male sarà vinto dal cuore. Affermazione originale sia in punta di spiritualità che in punta di tcologia. Tanto più originale per la nostra epoca che della presunta debolezza del cuore ha paura.
Il fuoco che arde nel cuore di Dio tiene elevata la temperatura del suo amore per noi e prolunga all’infinito la gratuità del suo dono, la sua Grazia. Al peccato che è gesto di gratuita insipienza e arroganza, Dio oppone la sua Grazia, che è gesto di gratuito perdono e di salvezza. La Grazia di Dio ci permette di schierarci dalla parte del bene. Don Gaetano è convinto che per operare il bene è necessaria la Grazia di Dio sia nel corso delle opere che al termiiie di esse. È necessaria cioè la Grazia preveniente, concomitante e susseguente che Dio concede a tutti perché ama tutti.
Ma fatta questa doverosa concessione alla teologia, don Gaetano deve porsi il problema nodale del fascino che il male continua a esercitare sull’uomo. Di primo acchito gli viene da imboccare la strada apocalittica, dicendo ai peccatori: “Andate te maledetti perchè ho cambiato nome. Se un tempo mi chiamavate “Padre della misericordia e Dio di tutte le consolazioni” ora mi chiamo “Dio senza misericordia”.
Messa in bocca a Gesù, una invettiva del genere è preoccupante quanto si vuole ma non risolve il problema del fascino del male. Don Gaetano lo sa e così tenta altre forme di persuasione.
Apre, prima di tutto, con una esortazione dal forte impatto psicologico: “O peccatori, non vi fate affascinare dal tentatore, perchè avete inteso lo spavento, la vergogna e la pena che provano i malvagi nel giorno estremo del mondo e la pace e la gloria e la gioia che sperimentano i santi. Or che è tempo di risvegliarsi dal peccato, fuggite da quello e operate il bene che cosi vi toccherà, insieme con gli eletti, la porzione della gloria. E se sarete tentati dal dubbio: ciò sarà benedetto o maledetto? Sarò figlio di Maria o di Satana? È fra la speranza e il timore, salviamoci, abbracciamoci, stringiamoci con Gesù, nascondiamoci sotto il manto di Maria”.
Passaggio molto significativo per comprendere don Gaetano prete: lo scontro tra bene e male si complica per la presenza di Satana, che introduce il dubbio. Fascino del male e dubbio sulla salvezza! Questo è il mix micidiale che ci rende impotenti rispetto al grande scontro che si verifica nella storia e dentro ognuno di noi.
La risposta di don Gaetano a questa insidiosa miscela è straordinariamente pertinente: al fascino del male oppone il fascino del cuore, all’insidia del peccato oppone la seduzione dell’amore; al dubbio oppone la certezza che Gesù è venuto a ritrovare quello che era perduto e a salvare colui che era già morto. Divenne così il mediatore tra Dio e gli uomini per riconciliarli tra di loro.
E disegna il gran finale di questo scenario di salvezza con sensibilità squisitamente napoletana:
“Siamo stati riconciliati con Dio, siamo stati baciati (seduzione allo stato puro!) dall’Onnipotente Signore. Dunque facciamo festa, rallegriamoci, abbracciamoci con questo Dio che tanto ha operato e faticato per noi”.
Ma c’è un’altra potente immagine che don Gaetano adopera per darci la dimensione di quanto sia concreta e reale la salvezza portata dal Cristo. Essa consiste nel fatto che lui è venuto ad annunciarcela e se ne è ritornato nella casa del Padre per prepararci un posto: noi siamo familiari di Dio, dunque, destinati ad abitare dalle sue parti.
L’abitazione, la casa, è ciò che ti fornisce appartenenza, ciò che ti assicura un territorio, uno spazio vitale, uno spazio da coltivare. I suoi contadini lo capiscono bene e allora don Gaetano dice loro:
“Sono sicuro che ognuno di voi vorrebbe comprarsi una casa in quella trionfante città piena di gloria e di onore. La volete fabbricare? La volete comprare? L’uomo mieterà, dice l’apostolo (Gal 6,7) quel che ha seminato. Dunque vediamo come si raccoglierà in quella felicissima abitazione e questo seminiamo. In quella città altro non si raccoglie che conoscere Dio, amare Dio e lodare Dio, Sommo Bene e Principio e Fine ultimo di tutte le cose. Adunque seminiamo questa medesima semenza sopra questa terra, che ci fruttificherà il cielo. Raduniamo i medesimi materiali sopra di questo esilio, perchè ci fabbrichiamo un’abitazione nella patria, cioè procuriamo di conoscere Dio, coll’imparare, con tutta semplicità di cuore, la dottrina cristiana, insegnata dai ministri di Gesù Cristo, perchè questa è la vita eterna […]. Dunque, miei uditori, amiamoci, facciamoci coraggio, voliamo a prendere questo premio”.
L’amore, il coraggio e il volo: sono anche le tre direttive che suggerisce alle persone che si servono della sua esperienza per farsi spiritualmente dirigere. Con quale obiettivo? Quello di vincere la paura, di sciogliere il dubbio, di passare alla fiducia nel Dio che salva. Don Gaetano sa bene che non basta avvertire il bisogno della salvezza (come qualsiasi altro bisogno spirituale o materiale) per essere disponibili alla conversione che essa comporta: la domanda e l’offerta di salvezza non si incontrano sulla base del bisogno ma sulla base della fiducia. Della fede.
Ma come fa un cristiano a coltivare la fiducia nel Dio che lo salva? Come fa a fidarsi di un Dio che gli chiede di diventare una persona nuova? E dove trova forza ed energia per un’impresa del genere?
Secondo don Gaetano la risposta unica a tutte queste domande la comunione frequente. Un Dio che si fa cibo, che diventa commestibile, non ti avvelena ma ti salva. Mistero più provocatorio che sconvolgente: siamo tutti cibo per le stelle, ma non s’era mai sentito raccontare di un Dio che si fa pane e vino, carne e sangue per la nostra fame e sete.
Sono due le categorie di persone che rifiutano l’eucaristia: quelli che credono di alimentarsi con il cervello e vivono del loro orgoglio intellettuale (i farisei di tutti i tempi), rifiutando lo stomaco; e i poveri che soffrono così tanto la fame da pensare di essere solo stomaco, senza cuore e senza cervello. I primi se ne vanno per crepare di inedia due passi oltre la casa della salvezza; i secondi vorrebbero accostarsi a un banchetto cos” invitante ma temono di non essere degni, di non avere il vestito da cerimonia.
Storicamente questo doppio rifiuto si è radicalizzato. Di fronte all’annuncio dell’eucaristia i farisei e i loro epigoni si sono ritirati, inorriditi, per una proposta che suonava loro come cannibalica. A questo “orrore” per il contatto diretto con il corpo di Dio, la Chiesa ha risposto esasperando la sacralità, l’eccezionalità, la soprannaturalità dell’eucaristia, trasformandola in pane degli angeli e non più degli uomini, caricando la pratica della comunione di attenzioni e veti incrociati sempre più fuorvianti. A un certo punto, fare la comunione era diventato un privilegio riservato e controllato, con cui spesso i sacerdoti esercitavano un loro discutibile potere sulle coscienze.
Don Gaetano gioca invece tutta la sua credibilità di prete e di direttore di spirito sulla pratica della comunione frequente. Invita tutti a fare la comunione “ogni giorno, ogni giorno”. E se senti il “cuore di gelo e di marmo”, comunicati lo stesso, perché la comunione non è solo un premio ma è nutrimento, antidoto, cura e prevenzione. L’eucaristia è il sacramento dato “per il perdono dei peccati” (Mt 26, 28). E dunque non può essere un’esclusiva dei giusti o di chi si presume tale.
Nessuno come don Gaetano conosce a fondo la dinamica della colpa e del perdono, per gli anni passati nel confessionale. È convinto che “i pensieri dei peccati” debbano essere scacciati, perché alimentano sensi di colpa che creano le condizioni per peccare ancora. Se continui a fissarti sui limiti che il tuo peccato ti svela non hai più modo di ascoltare l’invito di Dio a superarli e non agisci secondo il suo amore ma in base al tuo timore. L’eucaristia è un antidoto contro la paura dei cuore, contro la paura di Dio e dunque contro la paura delle nostre colpe e dei nostri peccati.
“Non timore, ma amore” scrive don Gaetano a un sacerdote, turbato da dubbi e incertezze.
L’eucaristia è il sacramento dell’amore di Dio per gli uomini, prima di essere quello dell’amore degli uomini per Dio. L’amore di Dio si esprime nel perdono dei peccati; l’amore dell’uomo nel fare la volontà di Dio. E la volontà di Dio è che ci cibiamo di lui.
Siamo molto lontani da quella spiritualità fatta di esplorazioni angosciose, di analisi tignose, di feroci vivisezioni psicologiche.
Secondo don Gaetano è “meglio pensare come migliorare e guadagnare più amore e premio per l’avvenire, senza inquietudine. Non tenete, Dio vi ama”. Come dire non perdetevi nelle premesse, passate all’azione nella certezza, come dice Giovanni, che “Dio è più grande del vostro cuore”.
Eccola la centralità del cuore, nella spiritualità e nel carisma di don Gaetano. Centralità della potente simbologia dei Sacri Cuori, come abbiamo detto, ma anche centralità dell’amore, come regola fondamentale nei rapporti con Dio e con i fratelli.
Qui ci piace evidenziare il modo piuttosto singolare che ha don Gaetano di intendere questo amore come “innamoramento”. L’innamoramento è l’amore allo stato sorgivo, l’amore che si rinnova continuamente, l’amore che non si dà per scontato ma conserva e aumenta i colori della meraviglia e della sorpresa.
“Innamoratevi – scrive a un istituto di educande condotto da suore – di Colui che giammai lo potete perdere e né la morte ve lo può rubare; donategli tutti gli affetti del vostro cuore, perché esso l’ha ferito di amore per voi, vi ha amate prima della vostra nascita e di amore bruciava per voi mentre eravate nel seno materno; i suoi pensieri erano, sono e saranno tutti diretti a voi. Non è gran fatto che voi, per amore, pensate e ardete per acquistarvi i teneri abbracci del Divin Cuore”.
Il linguaggio che don Gaetano adopera è mutuato da una letteratura spirituale che ha concesso fin troppo al dolce per attirare le anime e all’amaro per spaventarle (le medicine amare, si diceva anche tra i medici dello spirito, sono quelle che fanno meglio). Ma l’uso che ne fa il Nostro lo piega a risultati comunicativi diversi, molto più efficaci e concreti.
In una sua celebre predica sviluppa l’immagine dell’acqua e della sete. La domanda di acqua proviene da una “umanità sitibonda” che si illude di abbeverarsi “presso cisterne dissipate dei vizi, delle iniquità e dei piaceri mondani. Invece di trovare l’acqua ristoratrice, essa stessa è forzata a correre come acqua per terra”. Formidabile: la nostra sete dipende dal fatto che disperdiamo in terra l’acqua che siamo. È la logica fulminante con cui Gesù inchioda la Samaritana al pozzo di Sichem. Le acque con cui cerchiamo di dissetarci non risolvono il problema perchè siamo una brocca rotta. Abbiamo bisogno di uno che, oltre a darci l’acqua, saldi le crepe della nostra anima e del nostro cuore (perdono dei peccati).
Per quanto concerne la prima parte – l’acqua vera da bere – a dissetarci è la “fonte del suo Santissimo Cuore”. Per quanto concerne la riparazione del contenitore, e cioè il perdono e la conversione, don Gaetano introduce nella grande narrazione del cuore la figura potente del ritorno. Il peccato è la fuga dal cuore, ma “giacché questa sera vi ho manifestato che il suo Santissimo Cuore è stata la cagione del vostro perdono, ritornate, peccatori, ritornate. Ritornate con cuore contrito perchè non vi disprezza”.
Storia della salvezza, che è storia del cuore, ed epopea del ritorno. La figura del ritorno introduce nella vita del cristiano l’esperienza della strada. Come dire che la sua condizione di vita è quella del nomade, del missionario. Sulla strada incontri strani pellegrini che ti curano se cadi vittima di uno scippo o di una rapina, che ti danno il pane se hai fame e si fa sera, che ti offrono dell’acqua se ti fermi a un pozzo per dissetarti.
Sulla strada trovi un ragazzo che va e viene da Secondigliano a Napoli per allenare i muscoli e il cuore a vivere di amore. Sulla strada trovi un prete, grande e buono, con la tonaca lisa e il viso sorridente, che trascina una croce. Ed entra nelle bettole a dire che ha un altro vino da offrire. Ed entra nella tua coscienza per dirti che hai un cuore diverso da quello che pensi di avere.
E se ti chiedi dove quel prete stia andando, ricevi una risposta misteriosa e affascinante: “Sto ritornando al cuore”.
Un prete del futuro
Il grande tema del ritorno, che è centrale nella nostra cultura, sia che prendiamo in considerazione le radici greche e romane come le radici ebraico-cristiane, porta in primo piano un’altra fondamentale dimensione della nostra esperienza: quella del tempo. La trattiamo a conclusione e completamento di questo profilo biografico, perché a caratterizzare un santo è proprio la straordinaria abilità con cui riesce a collegare tempo ed eternità, affidando a quest’ultima il compito di tirare la volata (di stabilire il significato) a quello.
I nostri rapporti con il tempo sono da sempre difficoltosi. Oggi rischiano addirittura di diventare pericolosi. Stiamo accelerando il nostro modo di vivere, corriamo sempre più forte riducendo le attese e le distanze. Ma non abbiamo deciso dove andare e che cosa fare. Di qui quello spreco incredibile di vite umane, che sono appunto fatte di tempo, prodotto da genocidi, guerre, ingiustizie, malattie, con le quali sottraiamo ai poveri la possibilità (e il tempo) di costruirsi condizioni di vita più umane, nell’illusione di poterlo impiegare a nostro vantaggio. Ma più rubiamo tempo agli altri, più soffriamo della mancanza di tempo: siamo una società che non ha ormai più tempo per niente, avvitata nel presente e dunque senza futuro. I giovani lo avvertono e ne hanno paura.
Oggi il futuro fa tendenza, ma di fatto è una parola vuota. E lo è per la nostra insuperabile incapacità di capire il valore del tempo: lo trattiamo come uno strumento, di cui impossessarsi per i nostri scopi. Come un oggetto, come se il tempo appartenesse alla logica dell’avere. E invece appartiene alla logica dell’essere: noi non abbiamo il tempo, noi siamo tempo.
È da queste parti che incontriamo don Gaetano. Egli impressionava per la straordinaria quantità di tempo che destinava al lavoro e per la scarsa quantità di tempo che riservava al riposo e al recupero delle forze. Soprattutto quando era in missione. Egli riservava al suo compito di sacerdote tutto il tempo che era: ogni istante della sua vita era evento sacerdotale, missionario, salvifico. Non voleva sottrarre nulla a questo compito. Non aveva altro tempo che per essere prete.
Questo è l’unico modo per combinare qualche cosa nella vita oltre che per diventare santi: vivere in pieno il tempo della nostra missione, della nostra vocazione.
La scelta di vita di don Gaetano si ispira al Vangelo. Anche Gesù aveva delle giornate pesantissime, tali da mettere in difficoltà i suoi apostoli che pure erano dei rudi pescatori abituati alla fatica.
Ma perchè tanto impegno, tanta urgenza, tanta fatica nella vita del Cristo e di tutti i santi? Perché questa continua tensione, senza soste? Per restituire alle persone il tempo e aiutarle a saldare il tempo all’eternità. Come dire: per impedire che altri interessi e compiti (piacere, successo, consumismo, potere, denaro) glielo rubino.
Gesù è venuto per restituirci quella dimensione temporale che ci era stata rubata dal peccato, ma anche da un asfissiante sistema di leggi che voleva inchiodarci a ciò che eravamo, impedendoci di diventare uomini nuovi.
La rivoluzione di Gesù sta nell’aver cambiato il tempo della storia: da passato a futuro, costringendoci a rivedere tutti i nostri libri di testo. Ci ha salvato, salvando il nostro tempo umano, saldandolo al tempo di Dio. Sta in questo la sua politica della speranza.
La saldatura del tempo di Dio con il tempo dell’uomo avviene a certe condizioni, che solo i poveri, gli ammalati, i peccatori, i perseguitati, i bambini conoscono. Questo il motivo per cui Gesù (e don Gaetano con lui) li considera beati. Per questo li preferisce, li guarisce, li perdona, li difende, li abbraccia.
In linea con il Vangelo, don Gaetano vive, e vuole che i suoi figli vivano, a contatto diretto con i poveri. Le sue case sono oasi missionarie, piazzate nel contesto urbano, senza soluzioni di continuità con il territorio, accessibili.
La base missionaria è la struttura fondamentale della missione continua. Il Missionario dei Sacri Cuori non semina e poi prosegue. Si fa povero tra i poveri, studia i fabbisogni delle diverse comunità, si confronta con tutti. Ed è in questo che si esprime quella cultura del futuro, che a noi pare rappresenti la caratteristica più attuale della personalità del beato Gaetano Errico e dell’opera da lui realizzata. Obiettivo della missione continua è svelare ciò che è ancora nascosto nelle persone, nella società e nella Chiesa. È portare alla luce ciò che dell’uomo non è ancora stato espresso. La sua anima, direbbe qualcuno. La sua umanità, direbbero altri.
In tutti i casi il carisma di Gaetano Errico e l’obiettivo della missione continua dei Missionari dei Sacri Cuori consistono nell’aiutare le persone a diventare quello che sono. A darsi un futuro. In questo totale investimento nel principio speranza sta la straordinaria attualità del Fondatore e della sua opera. E, se tutto questo si traduce nel termine facile e potente di conversione, va ascritto a merito di don Gaetano e dei suoi figli, che hanno saputo scegliere le parole e i simboli più semplici ed efficaci per lanciare il loro messaggio. La missione continua è un progetto di sviluppo cristiano, reso sostenibile nei vari contesti, promosso con uno scambio alla pari, come è appunto lo scambio d’amore. Non c’è conquista, non c’è imposizione, non c’è ricatto. C’è condivisione, ascolto, promozione della libertà di scelta, sostegno alla progettazione.
Nello stile missionario di don Gaetano, che attribuiva ai poveri la massima fiducia e credibilità, convinto com’era che fossero in grado di progettare il loro futuro, non si tenta di integrare, come diremmo oggi, le persone in un sistema di vita e di valori, precostituito e considerato vincente ma a loro estraneo. Il Missionario dei Sacri Cuori va dagli altri, diventa come loro. Valorizza la loro diversità, la fa diventare creativa.
A essere rovesciato è l’impianto comunicativo: non si va dal povero a dirgli quello che non sa, o a dargli quello che non ha, ma si va a dirgli (e a dargli) quello che può diventare.
È la stessa tecnica del Vangelo: Gesù va a dire alla gente ciò che la gente può diventare. Dice al cieco: “Vedi”. Dice allo storpio: “Cammina”. Dice al lebbroso che la sua pelle è fatta per le carezze e alla Maddalena che il suo cuore è fatto per amare.
E tu, quando trovi qualcuno che ti dice quello che vuoi sentirti dire lo cerchi, gli vai dietro, non lo lasci in pace. Sono cos” pochi quelli che parlano di vita eterna, che non te li puoi far scappare. Gesù è inseguito e assediato dalla gente. Don Gaetano viene, nella stessa logica, inchiodato alla croce della sua missione, del suo ministero. E lui non si tira indietro. Riduce sempre più il suo tempo personale per assicurare futuro agli altri. La straordinaria dedizione agli altri di don Gaetano è stata correttamente raccontata in termini di spirito di sacrificio, di impegno sacerdotale, di eroismo missionario, di devozione alla Chiesa, di coerenza sacerdotale. Ma leggendo e rileggendo i tanti episodi che descrivono i suoi rapporti con il prossimo ti si disegna nella mente una figura più presente al nostro quotidiano, più amica, più calda e viva: la figura di un uomo grande, buono, sorridente, come solo i poveri sanno esserlo. E ti riesce difficile vedere, oltre questa tenerezza umana, qualità, che pure ci sono, come la cultura, l’intelligenza, la capacità di governo o il fascino sugli altri o quelle più ruvide e rigide come sono appunto lo spirito di sacrificio e l’eroismo delle virtù. I canoni della santità tradizionale vorrebbero che fosse don Gaetano a nascondere la ricchezza della sua personalità, con la sua modestia e la sua umiltà.
A noi tutto questo sembra riduttivo. Dopo aver raccolto gli avvenimenti salienti della sua vita, dopo aver fatto l’inventario dei talenti della sua ricca personalità, penso che anche il lettore senta il bisogno di scoprire l’elemento che unifica tutto questo, di trovare la chiave di lettura che gli consenta di cogliere l’esperienza di don Gaetano come una qualche cosa di appropriato al proprio fabbisogno di senso e di salvezza.
Tento di aiutare chi legge proponendo una ipotesi: secondo me, il marchio in grado di sintetizzare la vita e l’opera di don Gaetano la misericordia.
Non conosco il posto che la misericordia occupa nei trattati sulle virtù. So che in un mondo come il nostro, che vive di potenza, abbiamo bisogno di un consistente supplemento di misericordia.
t- un termine in cui si mescolano le radici di parole come miseria e cuore. Potrebbe voler dire prendersi a cuore la miseria degli altri? Chissà.
La spiegazione che ci propone il beato Gaetano Errico è molto convincente: la misericordia, ci dice don Gaetano con la sua vita e con la sua opera, è il modo di amare gli altri, tipico del povero. Il povero non ha nulla da dare, non ha giudizi da esprimere o pregiudizi da difendere, non ha strumenti e non possiede soluzioni. E dunque non può recare alcun dono. Il suo obolo è considerato di scarso valore e di scarsa efficienza. Non può far altro che supplire con il cuore alla sua miseria e rispondere alla miseria altrui con se stesso, di persona. Facendosene carico, incarnandola. E lo fa con gesti semplici, piccoli, poveri. Con misericordia appunto, che è anche la tenerezza e la semplicità dell’amore.
Tutto questo ci lascia perplessi: a noi pare che per risolvere i problemi sul tappeto occorrano potenza, efficienza, durezza nell’azione, grinta. Che occorra distinguere tra chi dà e chi riceve, tra chi lavora e chi consuma, tra chi insegna e chi impara, tra chi ha e chi non ha. E non ci accorgiamo che sono queste terribili divisioni, queste terribili semplificazioni che rappresentano il problema: non riusciamo a crescere in umanità perché non crediamo nella tenerezza e nella semplicità dell’amore, nella efficacia del farsi carico dei nostri limiti e dei limiti dei nostri fratelli. E cos” la nostra politica continua a elaborare le figure vecchie e distruttive dell’amico e del nemico. La nostra economia continua a esasperare l’accumulo e lo chiama crescita. La nostra istruzione insiste sulla ripetizione e non trasmette meraviglia. E non sappiamo cogliere la lezione del povero: invece di applicare la sua misericordia, cerchiamo di insegnarli la nostra violenza. È questa l’impasse in cui viviamo oggi.
Penso che non sia di poco conto che lo stile della misericordia sia stato adottato anche da Dio. Anche lui ha tentato di salvare l’uomo ricorrendo alla sua potenza (Antico Testamento). Ma ha dovuto ricredersi, in qualche modo, e ricorrere alla sua misericordia (Nuovo Testamento).
La grande novità promossa dal cristianesimo riguarda appunto la figura del Dio della misericordia, che è un Dio povero, oltre che il Dio dei poveri; un Dio che si incarna, non che controlla dall’alto gli eventi; un Dio che si sacrifica, non che chiede sacrifici umani.
Don Gaetano ha capito tutto questo: l’ha vissuto e predicato, arrivando anche fisicamente ad abbracciare la croce, come tocca fare a tutti i poveri cristi del mondo. Ma nella sua scelta, c’è anche una eccezionale intelligenza dei requisiti che un progetto di evangelizzazione e un missionario devono avere: don Gaetano sa benissimo che non sarebbe mai stato accettato davvero dalla sua gente se si fosse presentato con il potere della sua intelligenza, della sua competenza, della sua funzione sacra. Non lo avrebbero accettato per due motivi: per timore e distacco; ma soprattutto per il tradimento delle sue origini, della sua famiglia, della sua condizione di partenza. A Secondigliano nessuno glielo avrebbe perdonato, anche se molto probabilmente si sarebbero limitati a un commento ironico della sua trasformazione-. il figlio di un maccheronaio deve prima di tutto avere il senso dei suoi limiti.
Il beato Gaetano Errico ha scelto lo stile della misericordia, convinto che si tratta dello stile di Dio, del modo di vivere del povero autentico, ma anche del metodo migliore per introdurre cambiamenti reali nella società e nella Chiesa. Da questa scelta deriva la sua affascinante lezione e la sua credibilità di prete e di uomo.
Il senso della sua misericordia sta racchiuso tutto nel gesto di quel ragazzo che se ne va, ogni giorno, a piedi da Secondigliano a Napoli e si tiene la sua fame per dare all’ammalato un pane o un frutto. Una specie di replicante di quell’altro ragazzo che ha sottratto alla sua fame qualche pagnotta e qualche pesce per poi scoprire, con il cuore in gola, il miracolo.
Al figlio di zi’ Pasquale Dio ha chiesto una partita di maccheroni. Gaetano gli ha regalato il cuore.
No Comment