La camera in piazza
 
Il decorso della malattia di don Gaetano ci viene tramandato da indicazioni mediche sui generis: malattia reumatica, congestione polmonare, congestione cerebrale. È una progressione clinica che i medici seguono come possono, ma che lui sembra controllare direttamente, con lucidità. Ci troviamo di fronte a una di quelle rare persone che riescono a vivere ogni esperienza a un tale livello di coscienza da riuscire a indovinare tempi e modalità del finale di ogni partita.
Don Gaetano inizia la manovra del rientro definitivo nella casa del Padre fin dal 1858, quando chiama due dei padri consultori per “aggiustare” alcune cose, dal momento che desidera “morire con la coscienza tranquilla”. Dispone, evidentemente, di una chiara visione di come si concluderà il suo viaggio.
Nel settembre del 1860, qualcuno attorno a lui comincia ad accorgersi che le sue condizioni di salute peggiorano notevolmente. Lui, discretamente, sta già da tempo diffondendo la notizia della sua morte. Il 15 ottobre celebra la Messa e fa la predica, ma è così provato che sua sorella Rosalia gli raccomanda di riguardarsi.
“Sorella mia” le risponde “ho fatto tutto quanto mi hanno detto i medici. Ora bisogna fare la volontà di Dio”.
Il 20 ottobre riceve la visita delle autorità civili per la questione del plebiscito, come abbiamo già raccontato. I rumori esterni gli giungono ormai sempre più lontani, ma a un livello sufficiente per addolorarlo: “Povera Chiesa! Povera Congregazione! Oh, che veggo, Signore non lo permettere. Abbreviami i giorni, fa presto”.
Il racconto della morte di don Gaetano ha una trama molto originale. Il protagonista – come avviene di solito – non perde gradualmente, attraverso l’aggravarsi della malattia, i contatti con il mondo. Anzi. Sembra immergersi sempre più a fondo negli eventi. Invece di uscire di scena, la occupa con una crescente consapevolezza del proprio ruolo. E, a mano a mano che diminuisce la sua capacità di agire, di intervenire direttamente, aumenta la sua capacità di elaborare, di interpretare, di cambiare il segno di ciò che gli succede attorno.
Sul territorio di sua pertinenza, culturale e apostolica, una mutazione epocale sta avvenendo all’insegna dell’arroganza e della povertà progettuale.
Don Gaetano pianta il suo letto di sofferenza su questo territorio e con una dolcezza infinita impartisce a tutti la sua ultima lezione: il nuovo nasce quando decidi di perdere la vita, di seminare te stesso sul terreno della storia, di accollarti la croce (tema ricorrente nelle sue ultime riflessioni) per approdare alla risurrezione.
Questa figura di prete, tragica perché sembra schiacciata dal fallimento dei suoi ideali e del suo sistema di valori, parrebbe destinata al drammatico elenco del martirologio cristiano e sociale. E invece no. È destinata all’elenco dei testimoni, dei profeti. All’elenco di quelle rare persone capaci di futuro, di cui oggi avvertiamo in modo quanto mai pesante la carenza.
La morte di don Gaetano è un cambio di scena da capogiro.
Le grida dei combattenti, il vacuo ciarlare dei politici, il clangore dei proclami, degli inni patriottici e delle canzoni da osteria, che hanno finora rappresentato la colonna sonora dei fatti, si dissolvono all’improvviso nel mormorare composto e dolente di mille voci in preghiera. Mentre Vittorio Emanuele e Garibaldi recitano lo sketch di Teano (26 ottobre) a Secondigliano la gente entra in camera di don Gaetano, silenziosa e trepida, non per guardare l’ultimo atto di un dramma ma per collaborare con ‘o Superiore alla nascita di un nuovo motivo di speranza per il mondo.
Come sempre, nella vita di questo sacerdote, il popolo ruba la scena.
lo non so se esista un modo tutto napoletano di morire. So che la morte dei santi è sempre una morte corale. Ma questo paese che si ferma, attonito, quasi fulminato, davanti al suo don Gaetano che torna a casa – come se rientrasse da Napoli, da una missione, dal confessionale o dalla scuola – ti fa pensare a un’anima diversa.
Da queste parti si nasce in piazza, si vive in piazza, si diventa preti in casa, si prega per la strada, si portano a spasso i santi. Non c’è privacy, sembra, perché nessuno è in grado di rivendicare la nuda proprietà di se stesso, dal momento che si porta sempre appresso quelli che lo hanno visto nascere.
E così è don Gaetano, che tutti hanno visto nascere, andare e venire, pregare e studiare, flagellarsi e lavorare. E lui non può costruire una chiesa senza dire niente ai suoi, inventare una Congregazione senza che i suoi non entrino in convento a vedere come stanno le cose. E non può morire, né per volontà divina né per decisione propria.
Qui si muore per tenerezza popolare.
È appena mattino, il mattino del 29 ottobre, quando uomini, donne, bambini e anziani, si ritrovano nelle due chiese di Secondigliano, si caricano sulle spalle le statue dell’Addolorata e dei santi patroni e si mettono in processione. Don Gaetano sente fluire questo fiume umano dentro di sé: una linfa a lungo ricercata, a lungo desiderata dalla sua sete di prete, dalla sua passione di pastore, dall’urgenza del suo amore di apostolo. E decide di immergersi, ben sapendo che lo porterà dall’altra parte.
È un modo di vivere il viaggio – quello della vita come quello dell’emigrazione e della festa – di una straordinaria intensità: nel gioco di chi parte e di chi resta si crea uno scambio a spirale per cui la lontananza viene eliminata, esorcizzata. Diventa creativa. E così ciò che vive don Gaetano lo vivono anche i suoi compaesani, anch’essi immersi in quella corrente di vita trasmessa loro da quel padre straordinario,
La processione che sfila sotto le finestre della sua camera, finestre che vengono aperte perché la sua benedizione arrivi più facilmente, rappresenta bene il viaggio. Don Gaetano è un santo itinerante, un santo migrante, un santo missionario. La sua imponente figura non è fatta per dominare il paesaggio dall’alto di un piedistallo, ma per andare, per guidare la marcia verso nuovi orizzonti, per mescolare con fantasia la fatica di vivere con la meraviglia di stare al mondo.
Ma oggi ha un fretta tutta particolare. Lui che ha saputo reggere processioni interminabili, oggi ha bisogno che la processione si concluda velocemente. Che le icone dei santi rientrino nelle loro dimore. Che la sua Madonna torni a casa, perché “se essa non ritorna, io non potrò andarmene”. E quando la Madre rientra in casa, don Gaetano se ne esce. Dolcemente. Alle dieci in punto.
Tutti i poveri cristi ci lasciano in eredità la madre.
 
 
Reliquie
 
La notizia non disperde la folla che, come in ogni sacra rappresentazione, vuole portarsi a casa il ricordo dell’evento, la reliquia del santo.
Abituati a fare da spettatori, sempre paganti e mai partecipi, noi oggi coltiviamo poco la memoria: i fatti sono registrati nelle banche dati dei nostri computer o delle cineteche dei nostri network. Non abbiamo bisogno di reliquie e nemmeno di ricordare: per la nostra dispersione bastano gli amuleti che ci portiamo addosso, dalla carta di credito al cellulare.
Quelli di Secondigliano invece no, prendono d’assalto il corpo e la stanza del santo, i suoi effetti personali e gli strumenti da lui impiegati, confessionale compreso, per ricavarne frammenti. Commestibili, metabolizzabili.
Non essendo riusciti a convincere don Gaetano a farsi ritrarre in vita, i congregati, alla sua morte, invitano il pittore Raffaele Spanò a rilevarne la maschera. La stessa idea ce l’hanno i secondiglianesi, che incaricano il ritrattista Vincenzo De Mita. I due artisti ricavano un calco in gesso, da cui deriverà tutta l’iconografia successiva.
La ressa continua e bisogna chiedere l’intervento della forza pubblica, che viene regolarmente travolta. Il popolo insomma prende possesso del santo. E se l’autorità civile proibisce la sepoltura in chiesa, spediscono da Garibaldi il sindaco e tutta la giunta perché sia fatta una deroga. E la ottengono.
È lutto cittadino per tre giorni. Il 31 ottobre si celebrano i funerali solenni. Il corteo attraversa la cittadina. Dalle finestre scendono fiori e confetti. Difficile staccare don Gaetano dai suoi: senza di loro, del resto, lui sarebbe un prete incomprensibile. Si fa notte, quando la Comunità riesce a riappropriarsi del feretro e a procedere alla sepoltura, nel loculo ricavato per lui nella chiesa dell’Addolorata.
Il lutto durerà a lungo. Alcune donne non lo smetteranno più.
 
 
Verso la beatificazione
 
Nel processo canonico – quel complicato percorso giuridico che porta alla certificazione ufficiale della santità di una persona – si attribuisce notevole importanza alla fama di santità, in vita e dopo morte dell’interessato.
La Chiesa crede al sesto senso del popolo di Dio, che è un popolo esperto in santità. Un po’ per definizione, un po’ per esperienza storica.
Di don Gaetano si è sempre detto, fin da piccolo, che era un santarello. La sua vita è stata ammirata e accompagnata come la vita di un santo e la sua morte celebrata sullo stesso registro. Dal popolo, dalle autorità religiose (le più refrattarie normalmente a dare patenti di santità in bianco) e persino dal Papa, che è tutto dire.
Da vivo don Gaetano non ci stava: aveva della santità una concezione molto alta, il che gli permetteva di calcolare sempre la distanza che lo separava dall’obiettivo. Trattandosi di obiettivo infinito, o quantomeno soprannaturale, poteva conservare tranquillamente il suo basso profilo, senza rischiare di essere tacciato di narcisismo: non c’è peggior narcisista del santo che finge di non esserlo e ricorda a tutti che non lo è. Sperando che non gli credano.
Da morto non si è dispensato dal dovere tipico di ogni santo di fare miracoli. ~ stato subito chiaro a tutti che, in caso di necessità, a rivolgersi a lui si veniva ascoltati.
Fra Mauro Vallefuoco, fratello coadiutore di Casoria, entra in Congregazione giovane e dopo pochi anni si trova a camminare con le stampelle. I medici gettano presto la spugna: della sua gamba non capiscono nulla. Il coadiutore si rivolge al Superiore, don Gaetano, dicendogli di risolvere la questione con il Signore, perché lui a mangiare a sbafo non ci sta. Don Gaetano lo invita invece a mangiare e a bere (proprio lui!) “perché il Superiore conosce quando dovrai guarire”.
E però ‘o Superiore muore e fra Mauro si deprime. Qualcuno gli dice di mettersi la mano del defunto sulla gamba, ma gli pare una cosa poco corretta: un miracolo non viene per scippo. Riesce invece (e siamo sempre alla fantasia partenopea senza confini) a procurarsi un batuffolo di cotone imbevuto nel sangue vivo che esce dalla famosa piaga di don Gaetano. Se lo applica alla gamba come questa sera, e domani mattina entra in chiesa senza stampelle e va a fare la comunione come se niente fosse.
La gamba gli “rifiorisce”, che è un verbo da effetti speciali più che da medicina. Ma tant’è. Il medico curante è perentorio: “Ti ho detto che ci voleva un miracolo per guarirti. lo non ci credo, ma tu sei guarito”. La logica dei medici non cambierà mai, nemmeno per miracolo.
 
Marianna Laurenza ha un tumore. Viene a sapere che stanno facendo la ricognizione canonica dei resti di don Gaetano (siamo nel 1863) e gli chiede di guarire. Il tumore scompare.
E il vecchio Santolo Barbato cui il cane ha spezzato il tendine d’Achille, che a ottant’anni, manco con un miracolo si ricuce. Anzi la ferita va in cancrena e i medici dicono che bisogna amputare. La figlia si rifiuta: brucia un frammento di un pezzetto di camicia di don Gaetano, di cui era riuscita a impossessarsi, lo mescola con olio e unge la ferita. Nonno Santolo, un mese dopo, è sulla tomba di don Gaetano che non sa se piangere, ridere o pregare.
Con la stessa logica Pietro Di Blasio guarisce dall’epilessia (1861) e, dopo una vita da emarginato, prende moglie e mette su famiglia. Alfonso Mattiello da Buenos Aires guarisce da un tumore nel 1925. E a seguire tanti altri, tanto da convincere, senza ombra di dubbio, le autorità ecclesiastiche che si poteva avviare il processo canonico.
Non so se sia mai stata scritta una storia dei processi canonici. C certo che si tratta di veri e propri romanzi giuridici, ricchi di suspance, di colpi di scena, di interruzioni e di riprese, di dimenticanze incredibili, per cui, alla fine della vicenda, non è chiaro se uno diventa santo per effetto del processo, perché lo ha meritato o perché lo Spirito Santo ci ha messo del suo.
 
Nel caso di Gaetano Errico gli ingredienti di cui sopra ci sono tutti. Sei anni dopo la sua morte, il cardinale Riario Sforza dà il via al Processo ordinario: è la fase in cui si raccolgono gli scritti del candidato, le testimonianze sul suo conto circa la pratica delle virtù cristiane e i miracoli eventualmente compiuti. È una fondamentale raccolta di documenti che serve a redigere gli Atti: generalmente dei tomi impressionanti che vengono inviati alla Sacra Congregazione dei riti, accompagnati da una serie di lettere postulatorie a firma di importanti personalità della Chiesa, in cui si chiede l’introduzione del Processo apostolico.
 
Per don Gaetano, Pio IX che lo ha conosciuto e stimato fa addirittura una deroga sui tempi e concede che si passi alla seconda fase del processo, anche se non sono passati i canonici dieci anni. Vive ancora qualcuno che ha conosciuto il Nostro in vita e il Papa ritiene che i testimoni oculari siano particolarmente efficaci.
 
Nel 1884, Leone XIII dichiara Gaetano Errico Venerabile.
L’iter prosegue fino al 1895. Pare poi che abbia subito un arresto, per riprendere nel 1911, quando i documenti raccolti vengono presentati a Pio X per l’approvazione della cosiddetta “eroicità delle virtù” (un santo è tale perché dimostra di esercitare le virtù cristiane in grado eroico). Ma c’è uno sbaglio di impostazione e poi i nuovi consultori non conoscono la causa e devono studiare daccapo i documenti (i vecchi consultori che l’hanno iniziata sono tutti morti) e dunque si rimanda il tutto a nuovo ruolo.
Cala il sipario sulla vicenda processuale di don Gaetano per sessantatré anni. Perché? Potremmo anche pensare alla modestia del candidato. In realtà la risposta sta nei segreti delle Congregazioni romane e nella volontà di Dio.
 
Don Gaetano del resto non tiene conto dei tempi e dei ritmi delle Congregazioni romane e continua a elargire la sua protezione a chi si rivolge a lui con fede. La sua fama di santità si consolida. È del 1952 il miracolo che gli apre definitivamente le porte della beatificazione.
Salvatore Caccioppoli è di Castellammare di Stabia (Napoli) e soffre da tempo di forti dolori allo stomaco. Il 9 gennaio 1952 ha una crisi drammatica. La moglie, Gaetana Moretti di Secondigliano, intuisce la gravità dell’attacco e chiama immediatamente il medico. Il dottor Bartolo Quartuccio diagnostica una possibile perforazione da ulcera duodenale. Si fa un consulto con il dottor Guglielmo Di Nola, che conferma la diagnosi e consiglia l’intervento chirurgico urgente: non ci sono alternative per salvare il malato.
Sono le quattro del pomeriggio e la signora Gaetana – che si chiama così per un voto fatto a don Gaetano e che del venerabile è molto devota – ricorda di avere in casa una reliquia. La fa baciare al marito, gliela mettc sotto il guanciale e assieme a lui invoca l’aiuto del suo compaesano.
Come d’incanto il malato esce dal torpore, dà segni di vitalità, chiede da bere e dice di sentire in sé una straordinaria forza. È così quando si rende conto che si stanno compiendo le manovre per portarlo all’ospedale, si oppone. Il giorno dopo si alza come se niente fosse stato, lasciando di stucco i medici. Esami radiografici confermano la guarigione e la scomparsa della nicchia dell’ulcera. La documentazione sull’episodio viene dimenticata per anni.
Il 4 ottobre 1974 Paolo VI dichiara eroiche le virtù esercitate dal venerabile Gaetano Errico, vederlo al suo posto, tra i beati, passeranno ancora ventisette anni. Infatti solo nel 1999 un medico perito studia il caso Caccioppoli e consegna il risultato dei suoi esami al Tribunale ecclesiastico di Napoli. Da Napoli i documenti passano a Roma e i periti dell’apposita commissione medica, il 30 marzo 2000, dichiarano che si tratta di una guarigione scientificamente inspiegabile, rapida e completa, da attribuirsi al venerabile Gaetano Errico a favore del signor Salvatore Caccioppoli. È il miracolo atteso. Giovanni Paolo II emette il decreto di approvazione del miracolo per la beatificazione il 24 aprile 2001.
Ma perché possiamo venerare come beato don Gaetano Errico solo oggi? La domanda potrebbe risultare ingenua o impertinente e invece, trattandosi di faccende di santi, è intrigante. Quel mix eccezionale di procedure umane, di codici ecclesiastici e di volontà di Dio, da cui non è assente a nostro parere l’apporto dei diretti interessati, si carica di senso proprio quando arriva a compimento. Un santo è un frutto della Chiesa e il tempo della sua maturazione corrisponde sempre a una particolare pienezza, a un particolare momento di Grazia, a una particolare urgenza storica.
Che il beato Gaetano Errico sia stato consegnato a noi e non ai nostri predecessori deve avere un qualche significato. Cercheremo di comprenderlo nel capitolo conclusivo di questa vicenda.