Premesse
14 luglio 1789: presa della Bastiglia. Il popolo francese sogna di pasteggiare a libertà e uguaglianza.
26 agosto 1789: Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. La Francia pubbli-ca il nuovo codice delle relazioni sociali e internazionali, all’insegna della fraternità uni-versale.
Aprile 1791: Pio VI condanna contenuti e metodo della Rivoluzione Francese.
Ottobre 1791: Jacques Pierre Brissot, deputato girondino alla Convenzione, pro-muove la crociata della Francia contro l’Europa, per diffondere il messaggio rivoluziona-rio e, soprattutto, per far fronte con la guerra al malcontento popolare e alla crisi eco-nomica.
19 ottobre 1791: nasce a Secondigliano (Napoli) Gaetano Errico.
Un calendario drammatico per un vita che avrà come sfondo costante i colori accesi della guerra, della violenza, della povertà e dell’ignoranza. Sfondo ideale per i conquista-tori, per i geni, per i delinquenti e per i santi.
La storia ufficiale ha letto quel periodo come una fatale decomposizione del vecchio regime feudale e monarchico e come la faticosa gestazione di un nuovo ordine politico, etico, sociale ed economico, centrato sulla democrazia e la libertà.
In sintesi, la rivoluzione francese avrebbe portato a maturazione i frutti della moder-nità. Oggi che la modernità è finita, guardiamo a quel periodo con maggior senso critico: le nostre attuali difficoltà derivano dalle contraddizioni irrisolte di allora. Queste contrad-dizioni sono ben rappresentate da un lungo elenco di binomi micidiali: individuo – società, stato – società, ragione – fede, scienza – natura, stabilità – cambiamento, mercato – giusti-zia, progresso – sviluppo, economia – etica, guerra – pace, individualità – differenza. Non si tratta di parole da mettere d’accordo con qualche trucco logico. Si tratta di passaggi obbligati verso il futuro, che non ammettono scorciatoie e nemmeno simulazioni al com-puter: richiedono scelte concrete. A livello mondiale.
1789-1989: due secoli esatti è durato il mondo partorito dalla rivoluzione francese. Dalla presa della Bastiglia al crollo del muro di Berlino. Abbiamo impiegato questi due secoli per disegnare scenari politici e ordire rivoluzioni di ogni tipo. Il “progresso” tecni-co-scientifico ed economico ha premiato fino ad un certo punto il grande sforzo compiuto e i costi, soprattutto in vite umane, pagati. L’ultimo frutto della rivoluzione francese è sta-ta la guerra fredda, nella quale gli ideali di libertà, di fraternità e di uguaglianza sono stati congelati dal terrore della catastrofe nucleare.
E dunque il mondo nel quale viviamo ha solo dieci anni. In esso dobbiamo ancora imparare a muoverci: ci servono esperienze di frontiera, ci servono innovatori, progettisti d’avanguardia; persone in grado di progettare e costruire senza attardarsi troppo a simu-lare.
Soprattutto, non abbiamo ancora deciso come impiegare quegli embrioni congelati della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità. Nell’attesa, stiamo affidando la nostra sal-vezza al mercato, mediante quella nuova religione che va sotto il nome di globalizzazio-ne.
Nello specifico restano senza risposta e quanto mai urgenti tre antiche domande: Adamo dove sei?, Caino dov’è tuo fratello? E voi chi dite che io sia? Le conoscenze e le abitudini mentali di ieri non ci servono per rispondere a questi tre interrogativi, che met-tono in corto circuito l’Io, il Tu, l’Altro e l’infinitamente Altro.
Oggi, come agli inizi, per poter dire qualche cosa su chi siamo dobbiamo scoprire dov’è l’uomo e dov’è nostro fratello. Esperti in definizioni, grazie alla scienza, non siamo altrettanto esperti in esplorazioni: sappiamo chi è un uomo, ma non dov’è. E se qualcuno – come sta succedendo oggi, per l’appunto – si affaccia alla nostra porta di casa per u-n’informazione o una richiesta di aiuto, ci spaventiamo: pensavamo di avere un prossimo distante e invece dobbiamo fare i conti con un prossimo vicino.
Questo è il nodo della nostra condizione politica, economica e culturale: dobbiamo prendere atto che il nostro fratello ha varcato i confini che gli avevamo assegnato e cammina per il mondo esattamente come noi.
A più di qualcuno – e noi siamo tra quelli – viene allora il dubbio se non sia il caso di provare con altri strumenti, con altri criteri di giudizio. Se non sia il caso di adottare visio-ni del mondo diverse, punti di vista alternativi. Che ne so, la politica dell’amicizia, ad e-sempio, o la rivoluzione del cuore.
Non sono parole messe in fila ma sintesi nuove, che stanno dimostrando una buona applicabilità e una buona efficacia nell’affrontare questioni apparentemente irrisolvibili, come quelle della pace, della solidarietà, della giustizia, dello sviluppo.
Penso a queste cose, mentre leggo di un prete che se ne va in giro per un paesone del Sud, a volte con una grande croce sulle spalle, a bussare alle porte delle case e del-le osterie, per dire alla gente che c’è un nuovo modo di fare la storia e il mondo. Un mo-do che funziona, basta farlo girare. E ferma la massaia per strada per ottenere la sua adesione, sollecita il contadino che lavora sui campi, si infila nei capannelli dei soliti sfaccendati, si infiltra persino nelle fortezze della criminalità organizzata, rincorre i ra-gazzi. Potrebbe benissimo essere un extra comunitario, che vive di espedienti, aspet-tandoti all’incrocio del semaforo o sotto un portico obbligato. Uno che insiste, che non accetta la tua indifferenza, perché vuole una risposta. Vuole una adesione, una condivi-sione.
A mezzo tra il missionario e il candidato a caccia di voti e preferenze, non perde una traccia. Ti cerca “dove” sei. Non ti contatta via e-mail, si presenta di persona. A vederlo, alto e magro, un fisico da atleta avviluppato in una povera talare, una tunica chissà!, ti fa venir voglia di seguirlo, per vedere dove abita.
È sempre così: i maestri veri non ti dicono di venire a scuola ma di venire a vedere dove abitano e cosa fanno (cfr. Gv, 37-39). E c’è gente che si ferma da loro per sempre, perché dove vuoi che andiamo, dal momento che tu solo hai parole di vita eterna?
La storia di Gaetano Errico è la storia di un prete che cerca dov’è il suo fratello e lo invita ad abbandonare tutto per seguirlo, per un momento di riflessione, per un catechi-smo o una confessione. E quello va, vede e si ferma, affascinato dal suo segreto, dal suo sguardo. Dalle sue azioni. Dal suo cuore, più probabilmente.
L’incipit di un qualsiasi Vangelo è sempre lo stesso.
Gaetano Errico è un prete da tracking, che s’è formato a piedi, macinando otto chi-lometri al giorno, da Secondigliano a Napoli andata e ritorno, durante gli studi ecclesia-stici. Non s’è potuto permettere il seminario residenziale e ha dovuto allenarsi in proprio. Un maratoneta con la talare, per nascondere il costante ricorso al dopping del cilicio, del digiuno, della preghiera. Da allora non ha più smesso di camminare.
I suoi biografi raccontano molto bene le sue performances sulle strade di Dio e su quelle dei fratelli, che da piccolo lo chiamano il santarello, e da grande ‘O Superiore. L’o-nomastica napoletana rispetta poco l’anagrafe e il calendario, perché fa un uso creativo della parola: con un soprannome non ti mette semplicemente al mondo ma all’onore del mondo. E questo è l’unico modo, per un napoletano, di starci.
Purtroppo questa creatività – come la creatività delle persone, che è tutta proiettata verso il futuro – i biografi, che sono storici e si interessano del passato, qualche volta la usano a ritroso, con il risultato di perdere il senso dell’evento e del personaggio. Per rac-contare un santo, ad esempio, percorrono quasi sempre due piste narrative: o lo inqua-drano negli schemi della santità fin dall’infanzia (qualcuno è stato canonizzato ancora nel seno materno) o lo fanno convertire, dopo una vita sbagliata. La santità insomma deve essere accompagnata da effetti speciali, se no che santità sarebbe.
E invece – come ha dimostrato benissimo Giovanni Paolo II con lo straordinario nu-mero di canonizzazioni del suo pontificato – il valore della santità non sta nell’effetto speciale. Sta nella realizzazione di un progetto di vita che duri nel tempo e rappresenti un valore aggiunto per chi viene dopo. Un progetto di vita carico di futuro, insomma.
Come quello di Gaetano Errico. Nel suo caso la sfida postagli dalla vita ha avuto un qualcosa di provocatorio: dal momento che vivi in questi tempi di rivoluzione e di lotta che cosa pensi di fare?
La sua è stata una risposta molto pertinente e molto originale. Per questo ci ha incu-riosito e vogliamo raccontarvela. Ma per capirla a fondo dobbiamo tracciare, sia pure a grande linee, un primo scenario della storia del suo tempo.
La rivoluzione esportata
In Italia, come in Europa, la Rivoluzione Francese aveva entusiasmato alcuni e spa-ventato altri.
Gli entusiasti appartenevano alla categoria degli intellettuali, dei ricchi borghesi, de-gli esponenti delle nuove professioni che non ne volevano più sapere della monarchia, dei privilegi dei nobili, delle divisioni medioevali del potere. Volevano cambiare il sistema sociale e il sistema dei valori: alcuni ad ogni costo, violenza compresa; altri con graduali-tà. E siccome l’elenco delle cose che volevano cambiare era lungo e ad ogni riunione segreta si allungava ancora di più, non riuscivano a mettersi d’accordo sulle precedenze. E così i rivoluzionari e i patrioti si ammazzavano di polemiche e di botte.
Tra queste persone alcuni particolarmente infervorati non si limitavano a condividere gli ideali rivoluzionari ma si impegnavano a diffonderli in tutta Europa. Veri e propri agen-ti, sguinzagliati a organizzare nei vari paesi il passaggio al nuovo. I governi, dapprima indifferenti alle vicende francesi, hanno capito in fretta i rischi che correvano e hanno de-ciso di fare causa comune contro la Francia e di reprimere duramente ogni idea e ogni tentativo di cambiamento. Molti rivoluzionari dovettero darsi alla clandestinità.
Gruppi di cospiratori, soprattutto giacobini , si sono formati un po’ ovunque. In Italia è soprattutto attraverso le logge massoniche che le idee rivoluzionarie vengono diffuse. “La rete organizzativa della massoneria si era allargata molto rapidamente, acquistando una fisionomia palesemente rivoluzionaria a Napoli e in Calabria, dopo la visita intimida-toria delle navi francesi al comando del Latouche-Tréville nel 1792. Ma l’opera degli a-genti francesi e la breve occupazione di Livorno nel 1795 avevano incoraggiato in tutta Italia la diffusione dei clubs cospirativi e delle “società patriottiche”” .
I contrari alla rivoluzione – chiamati controrivoluzionari o reazionari – erano invece i re europei e i nobili, i grandi proprietari terrieri, certa borghesia legata ai propri privilegi, molti sacerdoti, soprattutto dell’alto clero, e anche il Papa, che della rivoluzione conte-stava soprattutto l’ateismo e l’anticlericalismo, oltre che l’attacco al potere temporale del-la Chiesa e ai suoi beni. Ovviamente ciò che faceva paura ai conservatori e ai reazionari era la prospettiva di perdere privilegi, proprietà, sicurezza economica, normalmente ot-tenute a buon mercato e senza il ricorso al lavoro, considerato da molti attività servile.
Ed eccoci ai servi, appunto, ai milioni di contadini italiani e europei che delle discus-sioni tra rivoluzionari e reazionari non sapevano cosa farsene perché vivevano nella mi-seria più nera, non avevano futuro, erano sottoposti ad ogni tipo di angheria e come ri-compensa spesso e volentieri venivano arruolati in qualche esercito per combattere guerre decise da altri sopra la loro testa.
Si trattava di una massa di poveri molto pericolosa, sia per il vecchio regime che per il nuovo. Qualcuno dei riformatori pensava di poter approfittare della rabbia e della dispe-razione delle masse contadine, per abbattere le vecchie strutture del potere. In realtà i moti contadini, che in questo periodo si sono manifestati in tutta Europa, si sono rivelati una mina vagante sia per i reazionari che per gli innovatori. L’obiettivo della lotta era in effetti diverso: i contadini combattevano per la sopravvivenza e volevano risposte imme-diate; i rivoluzionari combattevano per cambiare il sistema e si prendevano tempi tecnici e tempi politici più lunghi.
Rende bene la situazione questa petizione del 1792 presentata da 13 comuni pie-montesi al re: “Pensi, o Maestà, chi è alla rovina siamo noi che siam pronti a mettere la vita per difendere lo Stato e la Corona, ma convien che sua Maestà ci assista e faccia che possiamo vivere, dunque ci provveda dei viveri, immediatamente e anche terminato l’anno si pubblici nulli tutti gli affittamenti e che tutti gli adupatori Signori Conti, Baroni, Cavaglieri e Marchesi pagano li suoi debiti a chi ne è creditore, allora vedrà Vostra Mae-stà che tutto anderà bene, e che non vi sarà più calamità nei suoi Stati, che li Signori vi-vranno in quiete e che non avranno più tanto orgoglio, li sudditi vivranno in pace, e tutto anderà bene; in difeto non fa bisogno dei francesi, basterà di noi per sollevarsi contro questi lupi infernali de Signori e delli affittauoli, che credano di prendersi fin al fidico” .
Mentre nobili, piccola borghesia ed elementi del basso clero in vena di novità forma-vano gruppi di cospiratori attorno a obiettivi fumosi e facendo analisi confuse, tra i poveri si diffondevano il brigantaggio e forme di criminalità di vario tipo: soluzione obbligata per chi non riesce a difendersi diversamente.
Molti francesi nutrivano seri dubbi circa l’utilità di esportare in Italia i principi della ri-voluzione. L’ipotesi di creare una repubblica italiana aveva ottenuto parere negativo an-che dagli agenti che operavano nel Bel Paese. Motivo? Gli italiani sono corrotti dalla su-perstizione religiosa e dalla servitù politica e i patrioti sono troppo pochi, si legge nei loro rapporti. Quando si dice acume!
A qualcuno era anche venuta l’idea di preparare l’invasione dell’Italia da parte dei francesi organizzando una insurrezione, ma l’idiozia non è andata, una volta tanto, a buon fine. In tutti i casi il Direttorio decise di avviare la campagna d’Italia, affidandola a Napoleone. Obiettivo ufficiale: liberare la penisola. Obiettivo reale: trovare una nuova fonte di reddito per le casse semivuote dello Stato.
I rivoluzionari francesi e Napoleone pensavano, ingenuamente, che la libertà si po-tesse vendere e che i popoli liberati, per invasione e per decreto, sarebbero stati loro ri-conoscenti. Non fu così. Nessuno dei paesi “liberati”, Italia compresa, dimostrò di ap-prezzare la libertà di importazione. Tutti invece si ribellarono contro le pesanti imposizio-ni fiscali, l’interferenza politica, la noncuranza dei francesi per le condizioni locali e il di-sprezzo delle aspirazioni patriottiche dei vari popoli.
La campagna d’Italia risultò piuttosto facile a Napoleone: da aprile a giugno 1796 tolse di mezzo il Piemonte, conquistò la Lombardia, liberò Bologna e la Romagna. Nel-l’ottobre dello stesso anno firmò la pace con il Regno di Napoli, nel gennaio del 1797 con il granducato di Toscana e un mese dopo con lo Stato Pontificio.
A questo punto tutte le città italiane inviarono proprie rappresentanze a Parigi, chie-dendo di essere riconosciute come repubbliche. Ma non ci si metteva d’accordo sui con-fini: Milano pretendeva i confini del vecchio ducato dei Visconti e degli Sforza; i patrioti romani volevano i territori del Regno di Napoli; ma a Napoli si pensava che la Repubbli-ca Romana avrebbe dovuto fondersi con quella Partenopea; Modena avanzava pretese su Ferrara. Una sparuta minoranza di duri e puri proclamava la necessità dell’unità, ma a vincere erano i campanilismi e le ragioni private.
Con i suoi successi militari e le sue decisioni politico-amministrative, Napoleone prende di fatto la mano al Direttorio, costringendolo, suo malgrado, ad avvallare la politi-ca di conquista dell’Italia. Ma i commissari e i generali francesi inviati a governare le va-rie repubbliche italiane non vanno d’accordo e le loro decisioni amministrative fanno irri-tare l’opinione pubblica, patrioti compresi. Nella Repubblica Romana tutte le leggi sono sottoposte all’approvazione delle autorità francesi e i “liberatori” fanno piazza pulita, per ben due volte, dell’amministrazione civile. Anche la Repubblica Partenopea, durata po-chissimo (gennaio-giugno 1799), deve subire la ristrutturazione del commissario Abrial: i capi democratici di idee più avanzate vengono eliminati dalla scena.
Arroganza e incompetenza: un mix micidiale.
Il nodo che non si vuole affrontare riguarda la proprietà privata della terra e dunque la decisione o meno di abolire definitivamente l’impianto feudale della società, liquidare il potere di baroni e signorotti vari espropriandoli delle terre. Ma con o senza indennità?, ci si chiede per dilazionare le decisioni che vanno contro a interessi troppo consolidati. E piacciono poco anche ai rivoluzionari, per i quali la proprietà privata è un principio indi-scutibile. Si crea una situazione di stallo e di confusione, che di fatto dà ossigeno al vec-chio regime.
A Napoli Ferdinando IV fa pagare pesantemente gli aristocratici colpevoli di aver a-derito alla Repubblica, attacca i privilegi feudali e appoggia i galantuomini che gli sono rimasti fedeli, lasciando crescere il potere dalla borghesia agraria. Il controllo del paese però era impreciso per paura di una invasione francese e altri motivi: era stato necessa-rio perdonare gli eccessi dei sanfedisti, una specie di fondamentalisti che in nome della fede e del rispetto delle regole consolidate avevano fatto di tutto; gruppi di briganti mi-nacciavano le campagne; i contadini che si erano rifiutati di seguire il cardinale Ruffo non volevano pagare le tasse e occupavano le terre; i galantuomini erano terrorizzati dalla paura di sommosse popolari e cercavano di difendere come potevano il proprio patrimo-nio, incapaci di opporsi sia alla rivoluzione che alla restaurazione.
L’Italia, proprio in questa fase di transizione si crepa in due: mentre la sconfitta dei rivoluzionari al Nord consolida il potere dei proprietari fondiari moderati, al Sud i patrioti sconfitti consegnano ai loro concittadini e alla storia quasi solo la nobile testimonianza del loro martirio, perché tutto rimane invariato.
La frattura, a oggi, non si è ancora sanata.
Maccheroni e felpe
E adesso provate a inquadrare in questo ambiente storico un maccheronaio, una tessitrice di felpa e dieci figli.
Abitano alle porte di Napoli, capitale dell’omonimo Regno, e si guadagnano da vive-re come artigiani: lui produce maccheroni; lei lavora al telaio un tessuto di cotone di bambagia, detto anche ferba. Si tratta di lavorazioni tipiche di Secondigliano.
Mentre per l’attività tessile la moglie basta a se stessa – zi’ Maria è nota per la sua abilità e per la sua bontà – per la produzione dei maccheroni servono più braccia. Il pro-cesso di lavorazione della pasta prevede queste fasi: impastatura, gramolatura per ren-dere l’impasto più omogeneo, raffinazione, formatura per ottenere i vari formati facendo passare l’impasto in apposite trafile, essiccazione.
Il curricolo professionale degli apprendisti pastai di allora prevedeva il seguente per-corso: si entrava in laboratorio come raccoglitori, cioè addetti a recuperare i fili di pasta scivolati dalle trafile; si diventava poi trasportatori, e cioè addetti al trasporto della pasta dalla camera di produzione a quella di essiccazione e, a conclusione del periodo di ap-prendistato, si veniva promossi impastatori. Per quest’ultima mansione occorrevano due buoni piedi e forza di gambe: un’unica tecnologia per le tre fasi dell’impastatura, della gramolatura e della raffinazione. Acqua e farina nella madia e giù a pestare con i piedi per ore.
Che cosa pensate spinga un ragazzino a preferire questa qualifica? Il fascino arcai-co della pozzanghera per cui nessun bambino evita mai di immergere il suo piede in tut-te quelle che trova. Il piacere primordiale del mescolare terra e acqua, piacere cui dob-biamo addirittura la creazione dell’uomo. Il gusto di sguazzare in un elemento morbido e denso. Chissà.
Per quanto riguarda Gaetano, Cosma, Damiano – tre nomi importanti per il terzoge-nito di Pasquale Errico, maccheronaio, e di Maria Marseglia, artigiana tessile – quella preferenza non ha niente di ludico: camminare nella pasta gli consente di avanzare ver-so il suo sogno, gli permette di studiare perché gli lascia una mano libera per reggere il libro e il cervello sgombro per imparare e pensare al futuro.
Questo ragazzino con i piedi in pasta, diventerà un uomo con i piedi in terra e un prete con la testa in cielo.
Gaetano (13 – 14 anni) fa anche da responsabile commerciale nell’impresa paterna e segue i carichi di pasta perché vadano a buon fine. Sono tempi di fame ed è quanto mai facile che certa grazia di Dio prenda strade diverse da quelle commerciali. Sono an-che tempi in cui chiunque svolga un’attività in proprio deve imparare a gestire la preca-rietà: fornitori e clienti sono affidabili fino ad un certo punto e il mercato è una piazza non una funzione economica. Non c’è sicurezza per nessuno e se lo Stato borbonico era e-soso, l’amministrazione francese è di rapina.
‘Zi Pasquale sa che deve potenziare il suo laboratorio, incrementare produzione e commercio, se vuole farcela. Ma ha solo le braccia dei figli su cui contare. Ha, soprattut-to, la testa di quel Gaetano, che – si vede -ha marcia in più e che se non stesse lì sem-pre con quei libri in mano e i piedi in pasta… Partono sberle e ceffoni e bastonate e Gae-tano non si difende, si rannicchia quasi a chiedere scusa del niente che ha fatto e la mamma piange e ‘zi Pasquale si infuria perché non si può mandare all’aria un’attività co-sì ben avviata per perdersi dietro ai libri.
Il sig. Pasquale Errico ha ragione da vendere: nei libri non c’è nulla che si avvicini al-la sublime arte della pasta. Basti pensare agli elementi originali con cui essa viene rea-lizzata: l’acqua che rimanda alla vita e la farina che rimanda al grano, al sole. Che cosa c’è di più in libro che non sia già compreso nella storia concentrata in un maccherone?
Gaetano lo ha capito alla perfezione, giorno dopo giorno, camminando in quell’a-malgama primordiale. Ma essendo giovane, avendo letto qualche libro e avendo voglia di cambiare, Gaetano pensa giustamente che occorra diversificare la produzione. Per esempio, aggiungere alla pasta il pane.
Il pane ha un mercato più grande, globale possiamo dire. Persino Dio si alimenta di pane e quando ti invita alla sua mensa te lo spezza paternamente e a tutti gli invitati, che sono i poveri del mondo, si aprono gli occhi. I poveri li puoi mandare anche all’assalto alla Bastiglia ma se non ci trovano il pane si arrabbiano e diventano violenti. I poveri li puoi tener buoni con la polizia e nascondendo i loro diritti. Da loro puoi esigere inchini e tutto il servilismo che ti può far piacere, ma non li convincerai mai che tutto questo sosti-tuisca il pane. Gaetano Errico capisce che il salto da fare è passare dall’artigianato della pasta all’industria del pane per tutti.
Di industrie del genere, ieri come oggi, ce n’è una sola che abbia una diffusione mondiale e una produzione sicura: la Chiesa. Quella fondata sul Vangelo per assicurare a tutti il pane della vita.
Decide di farsi prete.
A quei tempi, i rivoluzionari e i laici così detti illuminati preferivano un bandito a un prete: come se il prete e il bandito non fossero entrambi carne da patibolo. Ma non c’è niente da fare, l’anticlericalismo è un modo così schizzato di confondere gli effetti con le cause che non può cogliere somiglianze del genere. Ovviamente l’eccesso di produzione di ghigliottine – un patibolo più tecnologico della croce e adatto a forme di “esecuzione umanitaria” più in linea con i principi di libertà, uguaglianza, fraternità – aveva ancora una volta fatto perdere il senso della realtà ai patrioti, ai rivoluzionari, ai cospiratori e a Napoleone. Per questo chiudono i seminari, confiscano i beni ecclesiastici, fanno prigio-niero il papa, aboliscono gli ordini religiosi. Allo scopo di far luce e liberare i popoli dal buio dell’ignoranza e della religione spengono anche le candele, che era l’unico modo per vederci in tempi privi di luce elettrica.
Farsi prete allora poteva essere una scelta vantaggiosa o una scelta coraggiosa. Era vantaggiosa perché se riuscivi nell’impresa – c’era il numero chiuso e le ammissioni al sacerdozio dovevano avere il beneplacito dell’autorità civile – compivi un salto sociale che ti permetteva di mettere al sicuro te e famiglia. Era coraggiosa perché se prendevi in mano il Vangelo e spiegavi alla gran massa di analfabeti quello che c’era scritto, ti potevi beccare una fucilata, una coltellata o una randellata
Non si danno armi illuminate, ma solo armi stupide. Don Gaetano l’hanno aggredito più di una volta.
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